venerdì, marzo 16, 2007

Design e complessità in Triennale

I bambini degli asili di Reggio, il Bauhaus, il Radical Design, le Twin Towers, l'innovazione in Fiat e alla 3M. C'è da chiedersi quale possa essere il filo conduttore che lega cose e situazioni così diverse. Di questo e d'altro si è parlato per due giorni alla Triennale, nel workshop su "Design e complessità" tenuto a margine della mostra su "Il paesaggio mobile del design italiano".

Ho seguito le due mattinate, con un sole fuori che avrebbe fatto bigiare i più secchioni. Giro qui le mie note, con una mezza passata e l'avviso che non solo sono molto incomplete, ma hanno davvero la forma tronca e sparsa di appunti presi al volo.

Arrivo in ritardo, per cui perdo le prime parole di Carmelo Di Bartolo, che ha presieduto i lavori per tutta la durata dell'incontro. Ho fatto in tempo a sentire che su questo stesso stesso tema si è deciso di tornare nel 2008 con un convegno di grande respiro, sempre in Triennale.

Inizia a parlare Tomas Dorta della University of Montreal, dove su design e complessità hanno messo in piedi un master. Discute la relazione tra oggetti o artefatti fisici e processi o sistemi. "Object/product oriented design is superficial"; "the product is only the point of the iceberg". Progettare in un mondo dominato da dinamiche complesse richiede di muoversi oltre o più in profondità rispetto al singolo prodotto od oggetto fisico. Oggi il prodotto è spesso un servizio o comunque una combinazione di prodotto e servizio, con elementi tangibili e intangibili, cose che stanno nello spazio ed esperienze che si fanno nel tempo. Partendo da qui (o meglio, da una rappresentazione molto più articolata del mio riassunto brutale), a Montreal hanno creato un appunto master nel quale cercano di costruire le competenze adatte a progettare. Competenze da esercitare attraverso strumenti tecnologici e fondamentali squisitamente teorici. Si va dall'ambiente immersivo per lo sketching (tavola grafica e penna al centro di uno schermo panoramico, a 360 gradi) al corso di "epistemologie et methodologie" o a quello dedicato alle "theories du project" (in francese, siamo nel Canada bilingue).

Segue la presentazione di Stefano Maffei, professore al Politecnico. Fa un passo indietro sui processi e sulle idee di "basic design" che hanno preceduto la discussione contemporanea su progetto e complessità. Le nozioni di Vorkurs (Bauhaus) e Groundkurs (Ulm). La consapevolezza che "la forma non è soltanto oggetto materiale" ha radici lontane nella storia della cultura progettuale. Richiama Tomas Maldonado e la sua "forma della merce". Sottolinea come il nostro stesso ambiente locale abbia in certo senso assorbito queste idee nella sua prassi ordinaria. "A Milano è accettata l'idea di 'sistema prodotto'" come insieme di dimensioni che comprendono la comunicazione, il marketing, il prodotto in senso stretto, il servizio. Questo propagarsi e stendersi oltre i confini del prodotto segna una trasformazione. "La parola design ha allargato i suoi orizzonti e indica un fenomeno sociale globale - è diventata liquida". Si passa da un prima dominato dalla preminenza della forma come dimensione topologica, quindi da aspetti spaziali-percettivi, a un oggi caratterizzato dalla preminenza delle caratteristiche relazionali-identitarie, ovvero cognitive, interazionali, comunicative, sociali, culturali delle merci. Allora il design "non è più una disciplina degli oggetti ma una disciplina dei processi". Ma non c'è da confortarsi con l'idea di una disciplina come un corpo stabile di regole universalmente applicabili. il design è "pratica clinica", informata sì da una struttura ma sempre situata in un caso specifico. Uno specifico complesso e unico. Una possibile risposta è in una visione rizomatica del sapere e delle competenze, che leghi le sfere della tecnica, della comunicazione, della cognizione, dell'economia e del sociale.

Dal Bauhaus ai bambini di Reggio Emilia. Parla Bruna Elvira Giacopini, pedagogista, impegnata in quegli asili che per una volta fanno parlare bene dell'Italia nel mondo. I "Reggio Children". Giusto orgoglio di chi è partito e cresciuto sulle proprie gambe. A Reggio tutto è iniziato da un asilo del comune, una struttura che per quasi tutti nel migliore dei casi offre un buon servizio - certo non fa ricerca. "Noi lavoriamo con la fascia d'età 0-6 anni ma in realtà ci occupiamo di ciò che vuol dire essere uomo o donna". La domanda fondamentale è "come ci può appassionare alla conoscenza". Un esempio notevolisso: il progetto "Re Mida". Recuperano scarti di lavorazione dalle industrie per usarli come materiali di lavoro per i bambini, un "centro di riciclaggio creativo". Ogni anno una celebrazione speciale con il "Re Mida day". Disseminano la città con quello che hanno immaginato e costruito. Piccoli che giocano e che progettano. "Pensa pensa pensa" dice mi pare Federica di 5 anni e alla fine trovi un modo per usare proprio quel pezzo lì. "Non siamo né artisti né designer" ma pensiamo a "nidi e scuole come luoghi dove si produce cultura". Il prossimo "Re Mida day" è il 20 maggio.

Ho solo poche righe purtroppo su Giulio Ceppi, Total Tool. Tre flash brevissimi ma molto vicini alle considerazioni di Dorta e Maffei, Netti e con una nota di disincanto che ho apprezzato, iperrealista per così dire. Il design è spesso alla fine di molti processi decisionali. Il designer farà un lavoro sempre più sotterraneo, non necessariamente firmando l'oggetto. Non si progetta per i bisogni - non abbiamo più bisogni oggi, solo desideri ("non riuscendo a risolvere i bisogni veri", credo di aver catturato da un inciso).

Il secondo giorno inizia con un intervento di Andrea Branzi. Faccio lo studente che cerca di scrivere per filo e per segno, senza riuscirci molto. Riporto qualche sprazzo di alcuni passaggi chiave e molto densi, sulla complessità come snodo della riflessione e della rappresentazione del contemporaneo.
Quello della complessità, spiega, è un tema emerso durante la "grande crisi culturale politica degli anni 60"; emerso in modi dirompenti "dal confrontro tra la mia generazione e i teorici del razionalismo, parte fondamentale del movimento moderno". Un confronto che risultava da una lettura diversa della storia del sistema industriale e da un diverso orientamento sul futuro. "Si era infatti consolidata l'idea che il sistema industriale fosse portatore di un ordinamento naturale del mondo". Quindi della scomparsa delle eccezioni, di quelle anarchie ancora in vista nei nostri anni 60, "considerate come il frutto di un ritardo che le forze della tecnologia industriale e della prodzione in serie" avrebbero prima o poi superato. "Il futuro che ci attendeva era di una modernità nell'ordine". "La mia generazione - quella poi raccolta sotto il titolo del movimento Radical italiano - si muoveva fuori da questa ortodossia". "Il movimento Radical italiano ha affrontato questa ipotesi e l'ha contestata". Si riteneva che lo sviluppo industriale "non fosse affatto portatore d'ordine" ma fonte di gradi crescenti di complessità. L'industria ha dispositivi definiti come razionali ma per comprenderla bisogna collocarla nel suo contesto, quello del mercato, le cui dinamiche non sono necessariamente governabili e determinate a priori. Nell'analisi del razionalismo il mercato era visto invece come una realtà completamente sotto controllo. Al contrario, le avanguardie ipotizzavano - come poi è successo - che l'industria doveva e deve affrontare la concorrenza, affrontare nuove tecnoloige e nuovi mercati. Non si va quindi verso un ordine, non si produce cio che già esiste. Piuttosto vi è la moltiplicazione delle offerte merceologiche.Sono leggi completamente diverse da quelle immaginate dal razionalismo. La stessa idea di progetto non è più quella di un processo ordinativo - quella di collaborare a un futuro d'ordine. Nasceva allora la filosofia per cui il progetto è ciò che aumenta l'offerta - una filosofia poi praticata nei fatti. "Il progetto non semplifica la realtà ma si aggiunge alla realtà esistente. E' energia aggiuntiva e moltiplicativa".
Non ho abbastanza materiale per proseguire su tutto il resto delle argomentazioni. In pochi passaggi Branzi accenna alle forme espressive che sono state generate da questa linea teorica. Gli oggetti di Alchimia e Memphis. Poi analizza la crisi stessa di questo paradigma, maturata in una sorta di intensificazione spinta sino al collasso. "Tutti questi colori sono diventati un unico colore grigio". Si è prodotta una omologazione. Un sistema che non produceva più una sintesi. Un sistema di immagini ma complessivamente aniconico.
Da riportare almeno un'ultima osservazione a proposito della cultura del progetto rispetto alla società e in specie alle religioni. Siamo in una società atea, dice Branzi, ma ci troviamo nel mezzo di una guerra di religione. E questo ha a che vedere anche con la cultura del progetto. "L'Occidente è una società progettante. basata sul grande potere del progetto". Dall'altra parte vi è una società che non cerca il suo futuro, ma il suo Medioevo. Non è un caso che Mohammed Atta, attentatore delle Twin towers, fosse un architetto. "Uno di noi" chiosa mi sembra, dalla distanza, con un mezzo sorriso. Studi al Cairo e master in Germania. Lui ha scelto le Twin Towers perché simbolo di un'architettura iperverticale e razionalista, rappresentazione estrema di ciò che a suoi occhi era da rifuggire e distruggere. Di nuovo, solo poche righe sulle suggestioni delle considerazioni conclusive, sulla "modernità debole e diffusa" del ventunesimo secolo.
"Il design cerca di ripartire dal modo di attaccare i bottoni o di piegare una forchetta". La semplificazione avviene dal basso. E' l'epoca del microcredito, delle economie pulviscolari.

Il lavoro da sbrigare in parallelo non mi ha lasciato scrivere durante gli interventi successivi di Fiat e 3M. La presentazione inviata da Roberto Giolito del Centro Stile Fiat e la discussione di Gianni Morra, sempre Fiat, ma dal Centro Ricerche. Quella di Marco Porcini, che guida da Milano lo Internation Design Center di 3M - il colosso USA dei post-it, per citare solo la cosa più celebre. Quel che sono riuscito ad annotare dall'intervento di Porcini: il fatto di esser riusciti a mettere Milano al centro delle dinamiche di un'azienda globale e con numeri molto rilevanti su ricerca e innovazione (7000 ricercatori, 29 centri di ricerca, 500 brevetti per anno, 6% fatturato in R&D). Spesso si deve fare cronaca su quel che accade all'estero: in qualche caso anche l'Italia ha il suo posto nel mondo.

Chapeau allora per i designer milanesi e i bambini di Reggio - ed è incoraggiante che si siano incontrati nelle stanze della Triennale.

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